ACQUASANTA, e il palazzo che non c'è più...
La foto mostra la squadra del Cantiere Navale, con un inedito Ciccio Ingrassia, intorno la prima metà anni '50, al jardinu 'i Paparini.
Nello sfondo, il palazzo che si trovava di fronte al cimitero inglese. Al centro aveva un tunnel che alloggiò per anni un vecchio camion "OM", che i picciotti del posto, come piranhas, spolparono fino a lasciare solo lo chassis.
A piano terra ci abitava 'u biricittista' con i due figli tocchi che venivano derisi dai ragazzacci.
Alla fine degli anni '60, questo palazzo fu in parte evacuato, poco prima che crollasse, aprendosi come un melone. Ne rimase una fetta sulla destra, abitata fino all'ultimo, quando crollò a sua volta. C'è qualche muro residuo.
Dalle foto d'epoca, si evince che il palazzo era stato costruito alla fine dell'Ottocento. Incredibilmente, il palazzo risulta ancora nel foglio 35 di mappa catastale, particella 618 !!!!, accanto all'esedra del cimitero inglese. 'Ste mappe catastali sono un minestrone pazzesco, perché vi confluiscono gli aggiornamenti di sedicenti geometri e altri.
Di contro, tante altre situazioni vi compaiono immutate, come le case al Pipitone che non esistono più, quelle in fondo distrutte dalle bombe del '43 e la fila di case a destra, demolite nel 1961 per la sistemazione dell'enorme collettore fognario. Commenteremo in seguito tutta la mappa fino al Belmonte, almeno, il palazzo misterioso di cui rimane solo un pilone, nella piazza, non vi figura più.
Il misterioso pilone di piazza Acquasanta
Il pilone è tutto quello che resta di un palazzo edificato probabilmente tra fine '700 e primi dell'Ottocento, che occupava l'area della odierna piazzetta e del cine Igiea Lido. In quel palazzo, con corte interna, vi ho frequentato parte della terza elementare, a.s. 1954-55: cadeva a pezzi e faceva anche impressione camminare su certi tavoloni messi sulle voragini dei balconi e delle stanze adibite ad aule. Poi completai l'anno scolastico a Palazzo Geraci, dalla padella alla brace ! Quello scalone rovinato, tetro...
Qualcuno sa a chi apparteneva questo palazzo? Ci sono foto prima della sua demolizione, avvenuta in concomitanza dell'apertura della via Ammiraglio Rizzo (1957)?
Commenti:
Gaetano Marchese: Comunque, quel pilone sa di militare, perché in cima non c'è il solito vasotto neoclassico, ma una palla di pietra, tipica di garitte e simili.
Bisogna scoprire cos'era quel palazzo in origine. Se mi ci metto....La foto del 1865 fa vedere delle mura con una sorta di posto di guardia bombato, ad angolo,..forse c'era una guarnigione...villa Lanterna, vicina, e quel diavolo di Nelson vi alloggiò con Emma Hamilton..ne era soggiogato...mha!
Giuseppe Alba: hai trovato documenti che attestano il soggiorno di Emma Hamilton e Nelson a Villa Lanterna? Questo pilone potrebbe essere della più volte menzionata sui testi Villa Bastioni dove di fatto hanno soggiornato Emma Hamilton e il Nelson (Mauro Alessi).
Pasqualino Marchese: Fino alla terza elementare ricordo averla fatta lí. Si accedeva alle aule dal balcone, uno alla volta, per caritá! Giú c'era un bel albero di gelsi.
Pasqualino Marchese: A sinistra di quell'albero sotto un muro c'era un orinatoio 'pisciaturi' con due entrate: sempre sporco e con una puzza tremenda!
Gioacchino Lo Voi: Noi bambini di allora cosa facevamo essendo un po' discoletti quando qualche vecchietto di allora andava a fare pipì tiravamo qualche sassata alla parete che era in lamiera e a quella persona che era dentro faceva un salto per lo spavento
Gioacchino Lo Voi: Pasqualino nella foto ora si vedono delle aiole e alberi, se guardi bene c'e una targa in memoria di Renzo Orlando direttore di macchina il suo impegno per tanti anni nella borgata come presidente di quartiere eletto per molti anni questa targa gli era dovuta poichè se lo meritava !
Per capirci meglio, dal foglio catastale N° 35, si riconosce: a sinistra la via G. Calcedonio, in alto la via A. Rizzo; la piazza Acquasanta con la chiesa col simbolo della croce "E" (gli edifici sacri, cimiteri etc non hanno un numero di particella ma una lettera alfabeto); particella 547 cinema Igiea Lido; part. 4=Villa lanterna; a destra il mare con la Peschiera (resti).; il palazzo demolito nel '57, dal dopoguerra fu adibito a scuola elementare. Era già vecchissimo perché risaliva forse alla fine del '700 a giudicare dal pilone superstite neoclassico. Aule enormi con affreschi sui tetti, corte con gelso gigantesco, lungo balcone padronale sfondato, si camminava sulle tavole che coprivano i buchi. Arrivai a frequentarci una parte della 3^ elementare, per passare poi a Palazzo Geraci, che pure cadeva a pezzi, scalinata buia e tetra. Dalla padella alla brace. Poi, con l'inaugurazione della nuova scuola "G.C. Abba" (1956) vedemmo una vera scuola per la prima volta.
Per intenderci, infine, il palazzo demolito occupava l'odierna Piazzetta Acquasanta, che collega via Rizzo con via Belmonte e di fronte Villa Lanterna. Il palazzo era addossato alle odierne particelle 549 e 550.
La piazzetta in memoria di Lorenzo Orlando
Lorenzo era uno dei nostri: compagno della piazza e della spiaggia e del nautico anche se uno o due anni piú avanti della sezione macchinisti. Bravo ragazzo, simpatico e sempre sorridente. Arrivó a direttore di macchina ancora giovanissimo. Una terribile disgrazia avvenuta sulla petroliere 'palermitana' Conca D'Oro stroncò la sua carriera. Dedicó il resto della sua vita alla politica della borgata.
Poco si sapeva esattamente cosa era successo quel giorno che si scatenò un incendio sulla nave dove era imbarcato, lui e tanti dell'Acquasanta, Giusto abbiamo avuto, in questo mese di settembre 2020, una testimonianza cruda e nuda sul successo, dal secondo macchinista Pippo D'Annibale.
Foto del 1971 - Pippo D'Annibale, caporale Tanino Tedesco, elettricista Vittorio Buzzotto
Pippo D'Anniballe a Gaetano Marchese
Il 04/06/1969 ero 2° ufficiale di macchina e con me era di guardia il fuochista Pino Bruno dell'Acquasanta quando fu proprio lui a sentire dal locale caldaie alle ore 15.35 il fischio non decifrabile di qualche emergenza.
Il sopraggiungere del 1° ufficiale. di macchina Bisbiglia di Gaeta molto provato emotivamente mi indusse con velocità inaudita ad andare in coperta per capire cosa fosse accaduto. Passando davanti la cucina un individuo ridotto ad ammasso di carne si girò per dire "iccativi a mari".
Dalle dimensioni capii che era il tanchista con la carne delle mani rimasta appesa alle punta delle dita come dei guanti che stentano ad uscire. Corsi verso centro nave e il lezzo della carne umana bruciata diventava sempre più irrespirabile. Nel carrugio vidi il direttore di macchina Renzo Orlando, il caporale Tanino Tedesco e il marinaio che si contorcevano e urlavano per il dolore.
I miei colleghi di coperta davano la necessaria assistenza, nel mentre capii che dovevo solo tornare in macchina e disporre per la massima velocità unitamente al rinforzo di guardia in funzione antipanico che insieme al mio decisionismo fecero distogliere quelli di macchina da altri pensieri e adoperarsi alla disposizioni operative che davo loro dato che il 1° ufficiale di macchina non si riprendeva dallo shock. Bruciatori in caldaia per la produzione di vapore necessaria ad assicurare il funzionamento delle turbine con tutti i 20 ugelli aperti. In tale maniera recuperammo 1 ora sulla prevista eta a Gibilterra dove sbarcammo i feriti e fu esperita l'inchiesta sommaria costringendoci ad una sosta, adesso non ricordo, di 5 giorni massimo.
Poi rotta su Palermo.
CORTILE MONTECHIARO II all'Acquasanta, via Simone Gulì.
Il cortile Montechiaro II ('U curtigghiu 'i Munticchiaru"), probabilmente ha un'origine coeva del Cortile Pipitone (poi "vicolo"), anche se nel libro "Dizionario delle strade di Palermo di Carmelo Piola (1870), non viene menzionato, mentre il Cortile Pipitone sì. Ho sempre pensato che si chiamasse "Montechiaro" dal cognome di Federico Montechiaro, ufficiale in seconda del più noto navigatore Vincenzo di Bartolo, che, per primo, con una nave siciliana di Benjamin Ingham, raggiunse le Indie Orientali (Sumatra) per caricare pepe nero etc..Federico Montechiaro da Ancona, pilota d’altura, era stato naturalizzato cittadino del Regno delle Due Sicilie nel 1835. Nel primo viaggio della nave “Elisa” (1838-39) verso Boston, una tempesta ridusse la nave a mal partito, Vincenzo Di Bartolo si spezzò una scapola, ma il Montechiaro condusse la nave fino a Boston, tra lo stupore degli americani. Dopo le riparazioni, la nave diresse verso Sumatra via Sant’Elena (..tutti ladri, annotava Di Bartolo, perché l’isola era scalo obbligato di molti velieri che dovevano fare provviste e acqua a prezzi esorbitanti), e via Capo di Buona Speranza. L’Elisa tornò a Palermo dopo un anno e mezzo dalla partenza.
L'amico Aurelio Ingrassia, nato al Montechiaro I, nella casa dotale della nonna, costruita dai genitori su concessione del barone Montechiaro nel 1886, getta luce diversa sull'origine del nome. Nulla toglie che il barone fosse il diretto discendente di Federico. In effetti, a quei tempi, chi comprava quei terreni per costruirci, non ne acquistava la piena proprietà, nel senso che avrebbe dovuto pagare in perpetuo un canone al venditore che vantava diritti di enfiteusi su quei terreni ricevuti in concessione dai grandi proprietari terrieri (duca di Montalbo, per intenderci). Il cortile Montechiaro aveva 4 sub-cortili: Catania, Oliva, Silvestri (a destra) e cortile Barraco a sinistra. Quest'ultimo immetteva nel cosiddetto "Pizzuluni" (Pozzo di Lume), un budello lungo, che separava la fila di case di sinistra del Montechiaro con la fila di case del Pipitone a destra, poi demolite. Del cortile Barraco rimane un pezzettino con case diroccate. Il cortile Montechiaro, a prima vista, sembra averla fatta franca nella 2^ guerra mondiale. Incredibilmente, non sono mai arrivato in fondo al cortile dove c’è la Madonnina, ci andavamo spesso (1955-60) per bere alla fontana, del 1898, come buona parte delle fontane pubbliche di Palermo, tante altre sono del 1887.
CORTILE MONTECHIARO I e II, l’origine del nome.
Premesso che il nome del cortile deriva dal capitano Federico Montechiaro, vale la pena di raccontarne, brevemente, la storia. Federico Maria Montechiaro, nasce ad Ancona (allora Stato Pontificio) , l’ 8 dicembre 1813. Studiò forse nel Collegio Nautico di Napoli, dove, nel 1835 fu naturalizzato cittadino del Regno delle Due Sicilie da Re Ferdinando II. Il 28 ottobre 1838 lo troviamo come pilota d’altura (ufficiale navigatore e comandante in 2^), imbarcato sulla nave “Elisa”, in partenza da Palermo per Boston con un carico di vini e altro. Il comandante era il famoso Vincenzo di Bartolo (Ustica 1802- ivi 1849). Il viaggio nacque sotto cattivi auspici: mare e venti contrari, ben 40 giorni per raggiungere Gibilterra e “sbuccare” nell’Oceano Atlantico. L’ Elisa era un brigantino di 238 tonnellate di stazza, non male per il cabotaggio, non proprio adatto per le traversate oceaniche. Il 6 gennaio 1839, l’Elisa fu quasi distrutto da una tempesta. Il di Bartolo si fratturò una scapola e dovette affidarsi al giovanissimo 25enne Montechiaro per tentare di rimettere la nave in sesto e proseguire il viaggio. Il giovane Federico riuscì nell’intento con tanto sacrificio dell’equipaggio tutto e così l’Elisa il 27 gennaio 1839 approdava a Boston, ricevuto da Benjamin Ingham Jr. Gli americani rimasero stupiti, perché la nave si presentava con danni enormi, ma il valore e la competenza dei due Acquasantini di adozione fu incommensurabile. Di Bartolo e Montechiaro abitavano al Molo, in quella lunga fila di case che arrivava fino alla piazza Acquasanta. Tutta la zona fin quasi via Libertà odierna era “Sezione Molo”. Tutti i marittimi abitavano in quella fila di case. Il mio bisnonno paterno e il nonno materno di mio padre, marittimi, abitavano nel cortile Pipitone. Tale concentrazione di marittimi si spiega con la vicinanza del porto identificabile con l’attuale Molo Nord.
L’Elisa poi proseguì per Sumatra dove approdò il 1° luglio 1839. Tra mille difficoltà, riuscì a completare il carico di pepe nero e ritornare a Palermo il 14 dicembre 1839, quasi 14 mesi dopo la partenza. Il viaggio aprì nuove prospettive commerciali per Re Ferdinando. A Vincenzo di Bartolo fu concessa la medaglia d’oro al valor civile, a Federico Montechiaro, quella d’argento.
Don Federico Maria Montechiaro, sposa il 13 giugno 1843, Donna Anna Maria Lo Casto. Federico muore a Palermo nel 1881. Curiosità: Montechiaro, essendo nativo di Ancona, per sposarsi dovette produrre una montagna di documenti, a cominciare dall’atto di nascita dalla sua parrocchia, e poi, atti notarili, del console pontificio, assenso dei genitori (il padre risiedeva a Parigi !!!), dichiarazioni di testimoni, atti notori, in tutto una trentina di fogli, miracolosamente custoditi all’Archivio di Stato di Palermo, nei cosiddetti “Processetti matrimoniali”. Oggi si chiamano “processini” ! Se qualcuno ama il brivido di leggere quegli interessanti documenti...a disposizione.
Al di Bartolo, fu intitolata una via, traversa tra via Ai Fossi e via Nicoló Spedalieri. Almeno, abbiamo fatto risorgere dalle tenebre del passato, il nostro Federico Montechiaro.
"U curtigghiu Trapanisi"
Ma quale " A Sentimental Journey" (Viaggio Sentimentale) e Didimo Chierico ! Qui godiamo di itinerari culturali fantastici, a dir poco...
Simpatico cortiletto con accesso dalla via Simone Gulì, con due archi e volta apparente. Sicuramente prende il nome da qualche famiglia o appaltatore di cognome Trapanese che per primi costruirono o si stabilirono nel cortile.
Molti anni fa qualcuno ebbe l'idea di mettere un cartello in evidenza con la scritta "Cortile Trapanese", visto che la targa stradale si trova all'interno del sito! Una volta si vedevano le travi e le tavole del pavimento della casa soprastante.
Dalle foto: poco più a sinistra (saracinesca), l'ex forno Barresi chiuso più di 10 anni fa e ancor prima, per 30 anni, panificio di Melina D'Angelo che abitava con fratello e sorella al piano superiore. Nei piani più elevati abitavano i Valguarnera, i La Motta e Alfredo 'u immurutu, assiduo socio musicale di 'Gnazino varbieri. Indimenticabile l'efficiente portavoce fisso d'ottone con cui Melina comunicava con i sovrastanti. . In corrispondenza della cabina guida del camioncino, la persiana dove abitava Mariuccia che poi si mise a vendere in casa cemento , calce, quacina e mattoni . All'interno del cortile, a sinistra aperture forse comunicanti con l'ex forno.
L'accesso al grande giardino di ortaggi che negli anni '50 e primi anni '60 era gestito da tale Masi Martino. Dal terrazzino interno della mia casa che dava sul nostro piccolo giardino confinante con quello più grande in questione, era interessante vedere come irrigavano i campi. Abili giardinieri, con la zappa aprivano delicatamente dei varchi nei vattali (piccoli terrapieni che delimitavano ridotte quantità di terreno, magari con colture diverse) per fare entrare l'acqua che veniva per pendenza da una grande gebbia, almeno distante 100 metri. Dopo avere allagato queste aiuole, aprivano altri varchi e richiudevano i precedenti. Non mancava pure un bello e abbondante spargimento ri sali 'ngrisi biancu (fertilizzante). Era sorprendente notare come in pochi giorni già spuntavano lattughe e altro. Ogni tanto ci andavo per comprare un po' di basilico ecc.
Entrando per quel portone, si accedeva ad un mono ambiente, talmente rustico da fare impressione: dappertutto grosse zucche, pomodori e trecce di aglio appesi, indumenti da lavoro, scarponi, stivali, primitivi attrezzi agricoli ecc. e l'immancabile ritratto di S. Giuseppe con bambino e relativa lucetta fioca.; oggi, entrando in questo cortile, è come fermare il tempo.
Foto del 16 luglio 2022.
Fede al Cortile Trapanese.
Il cortile si trova lungo la via Simone Gulì, poco prima dell'ex panificio di Melina D'Angelo, vi si accede da un arco che immette in un piccolo e raccolto spazio. Una edicola minimal, con santa Rosalia e Padre Pio e forse con qualche piccolo ex voto, si può ammirare proprio sotto la volta.(16 luglio 2022). La Fede non ha bisogno di grandi esborsi materiali.
Ex Deposito Tram a Cavallo, inteso "...'o Stalluni".
Il 13 Febbraio 2019, durante il mio modesto Grand Tour, ho visitato il grande cortile di quell'enorme complesso che fu il Deposito dei Tram a Cavallo, che risale al 1888, come si evince dalla data in rilievo sopra il finestrone rotondo di uno degli edifici. L'ingresso attuale è dall'inizio della via Montalbo (Cantiere), ma una volta lo ricordiamo dalla via Simone Gulì, vicino l'autodemolizione, varco ora chiuso.
Una gentile signora, attuale proprietaria del complesso, mi ha spiegato che anni fa rilevò il complesso dall'ENEL, che negli '50-'70 lo usava come deposito di bobine giganti di legno per grossi cavi elettrici, precisando che la data 1888 si riferisce alla ristrutturazione delle costruzioni per il ricovero dei suddetti tram a cavallo. Invece, dalle ricerche effettuate dalla stessa signora presso l'Archivio Storico Comunale (dott.ssa Calandra), risulterebbe che il tutto risalga addirittura al 1824, senza precisarne l'uso, a quel tempo.
L'odierna proprietaria ha ribadito che, ristrutturando, ha cercato di mantenere per quanto possibile le originali caratteristiche della struttura stessa, facendomi notare di aver lasciato tutti gli anelli fissati ai muri che servivano per "posteggiare" i cavalli.
La dignitosa palazzina, a margine della struttura, probabilmente di fine Ottocento, pare sia un bene confiscato.. Comunque, non conosco molto della storia di questo ex deposito tram a cavallo, solo che mio padre (classe 1908) si ricordava di questo tipo di efficiente mezzo di locomozione. Se qualcuno ne sa di più, si accommodasse...!
Campo di bocce dell'Acquasanta di Miloro con un originale appendipanni
Il barcaiolo della spiaggia dell'Acquasanta
Galeo Arona dice:
...le prime 3/4 corsie erano curate con grande maestria dal custode Giovanni La Piana. Erano le corsie frequentate dai grandi, dagli assidui frequentatori, da quelli che sapevano giocare veramente bene.
Le prime corsie erano vicino alla fontana, quindi, al bisogno, potevano andare a dissetarsi e a lavarsi le mani. Le altre corsie erano un po trascurate "giustamente" perché quasi sempre libere. Solo la domenica venivano curate un po perché essendo giorno festivo, c'era più richiesta.
1 a sinistra mio padre Lupo Angelo
2 a sinistra Tarantino Giovanni
1 a destra Tarantino Isidoro (u zu siruaru)
2 a destra Tarantino Simone (padre di Isidoro e Giovanni)
Tarantino Isidoro (u zu sirouru) era del 1921, morto nel 1989. Famoso pure como un Pantagruel.
Gaetano Marchese ..dopo 60 anni rivedo con emozione "Siruoru" che, quasi incoscientemente, nel 1959 affittava le barche a noi 13enni. Ovviamente è quello a destra, robusto, capigliatura bionda, forse anche a causa del sole. Buonuomo, non diceva nulla se rientravamo in ritardo, dopo le canoniche 2 ore=200 lire. Che felicità prendere il largo con la barca, spinti da "Siruoru"....Però, quante "sbattuliate" e strisciate contro gli scogli della Grotta Regina e lungo il tragitto verso il porticciolo dell'Arenella. Quelle barche avevano la chiglia "smanciata", e poi continue collisioni con altre barche, con groviglio di remi etc. Sapevamo tutto su remi, scalmi, stroppi, parati, sivu etc...
Famiglie dell'Acquasanta
La gelateria dellángolo di via Simone Gulí con piazza Acquasanta, 'ru Zu Ninu', poi dei figli, il puù conosciuto Ciccio La Ferla. In questa foto, abbastanza modernizzata!
La storica farmacia Bajardi.
Tutti i giovani hanno conosciuto il dr. Ugo Bajardi (n. 1902), farmacista dell'Acquasanta. Ma anche il padre, Vincenzo Bajardi, classe 1872, fu il farmacista dell'Acquasanta, forse nello stesso locale. Nel 1905, compariva nell'elenco dei farmacisti di Palermo:
Bajardi Vincenzo, Acquasanta.
I barbieri tutto fare della borgata dell'Acquasanta
Il Salone da barba e capelli di Andrea Firuccia
Mirella Firuccia apparsa nella nostra 'La Borgata dell'Acquasanta' in Facebook, dice: Oggi a piazza Acquasanta c'è la tabaccheria ma tantissimi anni fa c'era il salone da barba del mio papà. Quanti tra voi ha conosciuto Andrea il barbiere? Che ricordi avete di lui? Qualcuno riconosce le persone delle foto?
E come non ricordare le buene persone e averle nel cuore per sempre! L'unico barbiere che non ho odiato durante la mia vita.
Il giovane Andrea era un ragazzo simpatico, con le parole giuste tra un scroscio di forbici e una allisciata di pettine sapeva come esssere misurato con il cliente.
Il salone da barba menzionato prima era del signor Di mento Andrea Firuccia lo prese in gestione dopo la morte del Di mento datogli in gestione dalla vedova, poiche' aveva due figli piccoli da crescere poi lo prese definitivamente Andrea Firuccia che io conoscevo bene Andrea dopo si mise il salone di fronte alla chiesa in via ammiraglio rizzo, racconta Gioacchino Lo Voi.
Il barbiere delll'entrata del Vicolo Pipitone: 'Gnazzinu' Mineo
'Gnazzinu (Mineo), 'u varbieri, classe 1913..; la moglie, parrucchiera , con studio accanto al coniuge con porticina interna comunicante col di lui show room, era intesa "'a varbiera"; la dignitosa sede era in via S. Gulì, ad angolo col vicolo Pipitone.
Il locale era 'sottomesso' e di molto, rispetto al marciapiedi. Andarci, era una tortura e anch'io, da bimbetto, dovetti sedermi su una specie di sgabello alto per il taglio capelli.
'Gnazzinu esordiva: "Se fai il bravo, poi ti do l'arancio"...'indecent proposal'?...mah, non esageriamo!
Sotto un lavandino faceva bella mostra un contenitore di vetro, una specie di "burnia", con all'interno delle orripilanti 'mignatte' o sanguisughe, che i barbieri applicavano , a domicilio, sulle carni dei clienti per abbassare 'a prissioni avuta...e poi, il rasoio affilato sapientemente tramite una robusta cintura di cuoio, il pezzo di lenzuolo messo attorno le spalle, l'incedere lento e risparmioso delle forbici che mai affondavano troppo, salvo poi tornare a casa e sentirsi dire puntualmente dalla mamma: "Ti lassò tutti 'ntiesta". La volta che gli dissi di farli più corti, esagerò a sfregio, anche in maniera asimmetrica. Gnazzinu, con fare e parole melliflue, voleva dire: "'i voi curti? e iu ti smiennu". D'altronde, un taglio capelli costava 100 lire e una cosa era andarci ogni mese e un'altra era andarci dopo un mese e mezzo o due.
Durante le grosse feste, era d'obbligo distribuire ai clienti fedeli, i famigerati calendari profumati, con tanto di belle donnine raffigurate.
Il barber shop era anche palestra di talenti, se nei lunghi e noiosi pomeriggi estivi Gnazzinu ospitava calibri del tipo Alfredo 'u immuruti e altri, per eseguire pezzi notevoli a base di mandolino. Molto tipico, anche allora.
Il dramma arrivò nell'estate 1962, quando a Gnazzinu arrivò l'ordine di sfratto, perché il suo studio di hair stylist doveva essere demolito assieme a tutta la fila di case a destra, entrando nel vicolo Pipitone. Comunque, il barbiere si trasferì subito in un locale accanto al tabacchino della signora Elvira.
L'ultima volta che ci andai per taglio capelli fu nel dicembre 1964, ero stufo di sentirmi dire che stavo incominciando a perdere i capelli. Così, io persi i capelli e lui perse un cliente, tiè!
La sede dell'atelier di Gnazzunu 'u varbieri, dove c'è quel muretto bianco con l'armadietto appoggiato (2014), angolo vicolo Pipitone. In corrispondenza dell'auto, portoncino con grata e finestra con saracinesca, c'era l'altro atelier di don Batassaru Vetrano, una merceria. La grande saracinesca, un tempo fino ai primi anni '60, costituiva l'ingresso della raffinata latteria di don Cicciu 'u lattaru, latte fresco Barbera in bottiglie di vetro spizzicato e fine tappo precario di sottile alluminio, anche a domicilio.....si metteva in frigo virtuale e cioè nel balcone, al mattino era perfetto.
Si parla del barbiere dell'Acquasanta, vicino al Bar Orientale ('..zziii), che di esotico non aveva niente se non il nome.
Diciamo che ogni tanto, contrariamente al nome che evocava l'Oriente, era teatro di qualche sciarra che invece si richiamava al vecchio West (Occidente). Le sciarre erano scatenate da nobili fini, come il gioco a briscola o meglio, da "tocchi" dove l'ambita posta era costituita da qualche "shoppettino" di birra o uno "doppio kummel";
‘Gnazzino’ Mineo, uno degli ultimi cerusici
Dicevamo che ‘Gnazzino’, l’unico del rione a quei tempi, possedeva sotto il lavandino e a piena vista, una ‘burnia’ con mignatte o sanguisughe.
La storia comincia dopo il concilio di Tours nel 1163, allorchè il papa Alessandro vietò la pratica della ‘medicina’ ai religiosi, che subito passò in mano dei nuovi chirurghi ed a una sottospecie generalmente i barbieri.
I barbieri, oltre al taglio di barba e capelli, si occupavano pure del salassi, estrazione dentaria, ortopedia, piccole ferite, amputazioni, e finalmente como esecutori della carneficina. Ma gnazzinu faceva solamente e modestamente salassi..., e non aveva il solito palo tondo in bianco e rosso simbolizzando il sangue e le bende che lo identificasse!
Gioacchino Lo Voi ci racconta...:
Il mio barbiere da piccolo era u zu mimiddru in via Di Cristofalo.
Quando sono cresciuto il mio barbiere era Marco Monti, era all'angolo prima della salita belmonte dove ora insiste la pizzeria La Staffa nel palazzo costruito anni addietro
Il barbiere vicino al bar Orientale era dei fratelli Di Mento. Dopo la loro norte lo prese Andrea Firuccia che pagava una specie di affitto del salone alla vedova Di Mento che aveva 2 figli da mantenere.
Il Di mento usava anche le mignatte (sanguisughe) per chi soffriva di pressione alta, per evitare paresi o ictus.
I figli del Di mento erano miei coetanei.
Ciro Di Benedetto, un amigo della adolescenza
U zu Pinu Lamia, calzolaio
Si chiama “magia del fare”. E’ un refolo alchemico, un prodigio, uno spirito anarchico che soffia quando vuole e dove vuole. Quindi anche all’Acquasanta. Quindi anche nell’anonima bottega di un calzolaio ormai in pensione.
Da pochi mesi trionfalmente girata la boa dei novant’anni, Pino Lamia ha l’aria di un Mastro Geppetto silenzioso e lacustre, un elfo che si aggira negli spazi ossuti della sua bottega, tra gli attrezzi dimenticati di una arte antica. Con lui ormai non c'è più Billy, il cane sonnacchioso e guerrafondaio che lo seguiva ovunque.
All’Acquasanta non c’è chi non conosca “u zu Pinu”. Calzolaio suo nonno, calzolaio suo padre, calzolaio egli stesso appena sceso dalla giostra giovanile di mille e passa mestieri. “Nella vita - dice - si fanno giri immensi per poi tornare sempre a ciò cui si appartiene…”
Non ha molti rimpianti, forse qualche certezza. Chissà se davvero nel mondo tutto è cambiato. Sono cambiate certamente le scarpe. Lui, appollaiato sul suo personale strapuntino, ha visto e capito.
Certo, dichiarar guerra alla Cina e all'economia globalizzata è fuori discussione. Ma pensare che quei miliardi di scarpe low cost tracimanti da milioni di bancarelle e negozietti, siano semplicemente delle scarpe “compra e getta” beh, questo si può... “Una risata vi seppellirà” - non è così che si diceva?
Lamia è un calzolaio, e ci tiene a sottolinearlo. Il calzolaio è quel maestro artigiano in grado si di fare qualunque riparazione, ma capace soprattutto di fabbricare un paio di scarpe partendo dal nulla, cioè dalla forma in legno. A differenza del ciabattino, in dialetto “suola chianeddu”, che è invece un artigiano esperto in rattoppi ed interventi d’emergenza (nei paesi e nelle borgate del nostro dopoguerra certi ciabattini andavano addirittura porta a porta, su delle inverosimili bici-laboratorio).
Gli attrezzi, i ferri del mestiere, sono tutti conservati. Alcuni hanno più di cent’anni. Il vecchio calzolaio li accarezza con lo sguardo, ne segue il profilo con le dita. “Utilizzavo trincetto e coltello a lama arrotondata per ritagliare sul banco il cuoio; le lesine, per preparare le suole; le pinze da cuoio per distendere la tomaia sulla forma; i chiodi; le raspe; il punteruolo e il martello” - dice.
Ci volevano sapienza, pazienza, esperienza. Ma il risultato era una scarpa perfetta: resistente, leggera, flessibile.
E ora? Le scarpe sono fatte di cerata piuttosto che di pelle e di plastica piuttosto che di cuoio. Non hanno più neanche i sopratacchi, niente tomaie da cucire né suole che si possano eventualmente risuolare (quanti ricordi: era una specie di tagliando che nei sapienti calcoli delle nostre mamme serviva a prolungare di qualche anno l’agonia di certe nostre scarpe esauste).
Niente più calzolai, e niente più ciabattini? Chissà. Dal canto suo, se ci pensa, il signor Lamia lo fa mentre leviga una colonna dorica, rifinisce un torrione o consolida una navata.
Che i morti seppelliscano i morti. Tutti viviamo nella incompletezza. La nostalgia ci dice costantemente che tutto ciò che abbiamo vissuto, che abbiamo amato, che abbiamo coltivato nel passato, non tornerà più, non ci appartiene più. Vale la pena attardarsi?
L’assist arrivò improvviso, inaspettato. Si preparavano i festeggiamenti per i trecent’anni dalla fondazione della chiesa dell’Acquasanta. “Mastro Pino - gli disse il parroco - perché non costruisce un modellino della chiesa?”.
Il modellino venne fuori, insieme a quel folletto bonario che stava acquattato da settant’anni in attesa del momento giusto per manifestarsi nuovamente.
“Avevo nove anni - ricorda adesso Lamia - quando credetti di inventare la radiolina a transistor, collegando due fili elettrici ad una scatola di fiammiferi e quindi alla presa di corrente…” Non erano tempi di interruttori salvavita né di contatori elettronici, per cui gli operai della società elettrica ebbero il loro bel da fare per riportare la corrente nel quartiere…
Il modellino in sughero della chiesa di Maria SS. della Lettera fu solo l’inizio. Poi venne l’intera piazza dell’Acquasanta come Lamia la ricordava (primordiale, casuale e mezza vuota, com’era del resto l’intera borgata). Poi il federiciano Castel del Monte di Andria, il Colosseo, la Torre di Pisa, la Farnesiana di Tarquinia, il Mausoleo di Teodorico di Ravenna, la Chiesa di San Cataldo (che i palermitani hanno sempre chiamato “la Martorana”), la settecentesca Villa Lanterna all’Acquasanta, il Ponte Ammiraglio sul fiume Oreto nel frattempo scomparso, il Foro di San Raineri di Messina, i Trulli di Alberobello, i Templi di Agrigento, la Cattedrale di Palermo (che da sola ha richiesto un anno di lavoro), la piramide maya di Chichen Itza, il Tempio di Salomone di Gerusalemme. “Basta una foto vista su un giornale o su un libro ad ispirarmi” - dice.
Colla, smerigli vari e una specie di bisturi autocostruito, sono gli attrezzi dell’artista. La sugherina (un materiale sintetico, assai duttile e tenero, succedaneo del più ostico sughero) è invece il materiale che la sapienza, la passione e la pazienza di questo ben strano tipo di calzolaio tramuteranno in suggestione, nostalgia, sogno o visione.
Visitare la bottega (o bisognerebbe chiamarlo atelier?) di Lamia è una esperienza straniante. Templi, castelli, cattedrali, torri, fortezze occhieggiano dappertutto, contendendo lo spazio a scarpe, scarponi sandali, stivali. O mischiandosi a questi, in un delirio di creatività primordiale. E poi fogli di quaderno, di quelli che usavano un tempo, sparsi ovunque. Sono riflessioni, pensieri, poesie, preghiere: una sorta di diario di bordo di un mondo - il suo mondo - inesorabilmente alla deriva.
“Prima o poi - sospira deciso - raccoglierò tutto in un libro, la mia autobiografia. Ho già pronto il titolo: U cielu mi iccò e a terra m’apparò”.
D’accordo, lasciamo stare Andy Warhol e Picasso. Ma voi uno così lo chiamereste mai “scarparo”?
Pietro Franzone 2019
E dopo di tutto era un nostro vicino, se lo conoscevamo..: lo studio di Pino Lamia, via Simone Gulì, 150, in corrispondenza di quella storica pensilina merlata, negli anni '50 merceria del sig. Baldassare -"Batassaru"- Vetrano.
Questa sera, qualche ora fa, è morto mio zio Pino Lamia, calzolaio, mastro, artista, poeta dell'Acquasanta! Aveva 93 anni! 14 gennaio 2022, Francesco Paolo Lamia, nipote.
L'ACQUASANTA e LES CHANSONS de GESTE. Tempi 'epici' nel vicolo Pipitone
G. Lo Voi e G. Giglia riferiscono di personaggi degli anni '50 e '60, come Cola "Barretta", fratello della signora Maria "Barretta", a panillara del vicolo Pipitone; era chiamato pure 'Cola Abbampatu', impropriamente, perché il vero Cola Abbampatu era stato un tizio, in tempi più remoti.
A piazza Acquasanta tra gazzose, acqua 'i Serse e caccamelle, da Cola ascoltavamo le gesta dei Paladini di Franza, Orlannu, Rinaldu e Canu ri Macanza: dava un tono così epico e solenne al racconto da restare sbalorditi.
In effetti, campava con luppini e murtidda e con montagne di babbaluci cu sucu davanti la taverna di Traina e a quella stessa di don Larè Martorana in vicolo Pipitone.
Alle uova sode, ova vugghiuti, ci pensava don Graspanu che abitava di fronte la taverna. I 'mbriacuni ringraziavano per questi approvvigionamenti.
Cola, poi si ricompensava con una colossale sbronza, tornando a casa barcollante.
La ex taverna Traina, ancora con la targa metallica forse di Confesercenti dove è indicato Domenica come giorno di chiusura. A destra, l'ex Putiinu o Banco del Lotto, via Simone Gulì...
Troppo belli questi pupi! Senza nemmeno una ammaccatura. I nostri dell'Acquasanta erano tutti scardinati, lacerati, feriti da tanti combattimenti e feroci battaglie.